Salerno Classica, Stabat Mater di Pergolesi Crux Fidelis di Paolo Orlandi  domenica 13 aprile in San Giorgio - Anteprima24.it

Esecuzione a Salerno in prima assoluta del Crux Fidelis di Paolo Orlandi e dello Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi nella Chiesa di San Giorgio, domenica 13 aprile alle ore 19,30, un’idea di Francesco D’Arcangelo e Silvana Noschese

Domenica 13 aprile, nella chiesa di San Giorgio, in Salerno, alle ore 19,30, verrà eseguito in prima assoluta il Crux Fidelis del giovane compositore Paolo Orlandi. E’ questo un progetto, che saluta il patrocinio del Mic, nato dalla sinergia del violoncellista e direttore d’orchestra Francesco D’Arcangelo, direttore artistico dell’Associazione Gestione Musica e di Salerno Classica e le Voci bianche “Il Calicanto”. La serata verrà inaugurata con il “Crux Fidelis” per coro femminile violoncello e pianoforte che vedrà unite le formazioni corali dell’ Estro Armonico e del Calicanto, dirette da Silvana Noschese, con al violoncello Francesco D’Arcangelo e al pianoforte Marianna Meroni. L’opera è ispirata all'omonimo inno gregoriano composto da Venanzio Fortunato nel 570. Si tratta di un inno adatto alla Liturgia del Venerdì Santo ma anche alla Liturgia delle Ore durante la Settimana Santa e alle feste della Croce. La composizione elabora il materiale musicale tratto dall'inno gregoriano e lo trasforma in una dolce meditazione accompagnata da violoncello e pianoforte che simboleggiano rispettivamente la croce e il rifiorire della vita che da essa scaturisce. Seguirà una particolare esecuzione dello Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi dove oltre alle due voci femminili, il soprano Anna Corvino e il mezzosoprano Michela Rago, verrà schierato il coro femminile e l’orchestra sempre sotto la direzione di Silvana Noschese. Di sicura provenienza è invece il già citato Stabat Mater, considerato l’icona sacra più emblematica di Pergolesi, commissionato con tutta probabilità da Marzio IV Carafa duca di Maddaloni, protettore del compositore, per i Cavalieri dell’Arciconfraternita della Beata Vergine dei Sette Dolori, e scritto tra il 1735 e il 1736 a Pozzuoli negli ultimi mesi di vita. Lo Stabat doveva sostituire nella funzione religiosa quello del celebre compositore Alessandro Scarlatti, che da molti anni veniva eseguito il venerdì santo nella chiesa di San Luigi di Palazzo. Pergolesi aveva “aggiornato” e reso più moderno lo stile della composizione sacra, utilizzando una concertazione che si distanziava dal rigore del severo stylus antiquus cercando un’espressione del sentimento religioso che puntasse sul fascino della voce e su una scrittura orchestrale più semplice e chiara. Il testo della sequenza latina si rifà al momento di dolore in cui Maria piange il figlio in croce e nel contemplare e pregare la Vergine durante lo Stabat, il fedele doveva mostrare una partecipazione commossa, di vero pathos sentimentale, quasi come veniva raffigurato da una certa iconografia settecentesca. Pergolesi cercava quindi, a questo fine, una immediatezza emotiva che era solita appartenere più alla sfera operistica che sacra. Le voci femminili, nel registro di soprano e contralto, alternano una serie di 7 duetti e 5 arie solistiche (12 numeri musicali) per le 20 stanze della sequenza, in modo più snello e conciso rispetto alla tradizione. Oltre alla scrittura vocale, anche quella orchestrale pergolesiana tende a seguire l’espressione sentimentale declamata dalle parole. Ma nonostante la ventata di freschezza apportata, il compositore non rinunciò alle usanze tradizionali e un fugato si pone a chiusura dell’opera. Un secolo dopo questa pagina – tutt’altro che offuscata dal gusto romantico – trovò nuovi e ancora più fervidi ammiratori: Vincenzo Bellini la nominava come “il divino poema del dolore”; Richard Wagner la definì un lavoro “assolutamente perfetto”. A lungo lo Stabat Mater di riferimento fu quasi esclusivamente quello di Pergolesi: ancora negli anni della sua maturità, ad esempio, Gioachino Rossini esitò per mesi prima di comporre la propria celebre versione, convinto che nessuno avrebbe potuto realizzarne una migliore di quella del suo predecessore. In tutti questi anni, la partitura pergolesiana circolò anche in numerosi adattamenti, incluso uno dei più celebri, quello di Johann Sebastian Bach, il quale adattò appositamente il testo del salmo Tilge, Höchster, meine Sünden, affinché calzasse alla perfezione sulla musica dell’italiano. A Pozzuoli Pergolesi aveva accettato questa ultima commissione, proveniente dalla nobile confraternita napoletana dei Sette Dolori, il cui culto necessitava di un nuovo Stabat Mater per le celebrazioni del Venerdì Santo: da più di una generazione la confraternita utilizzava la musica di Alessandro Scarlatti, e ora desiderava una nuova soluzione, stilisticamente al passo con i tempi. Pergolesi offrì, in effetti, un approccio moderno all’intonazione dell’antica sequenza latina, tradizionalmente attribuita alla penna del grande Jacopone da Todi: il testo liturgico è trattato come “musica sacra da camera” e il clima espressivo rifugge l’austerità che da sempre caratterizza l’aria da chiesa, aprendo così la via al nuovo gusto tardosettecentesco, a una sensibilità patetica, comunicativa, “galante”. Le immagini liriche e il significato semantico del testo – che rievocano il dolore della Madonna dopo la crocifissione del Figlio – trovano una corrispondenza, nella trasposizione sonora, nelle lunghe frasi dei violini, che restano spesso dolorosamente sospese, o nei lunghi pedali, nelle aspre dissonanze, nei passaggi dinamici a contrasto: molti e vari sono gli espedienti musicali accuratamente selezionati per esprimere la sofferenza della Vergine, una sofferenza umana, materna, universale. Le venti strofe di terzine (due ottonari in rima e un senario sdrucciolo, secondo lo schema AAb-CCb) sono intonate con una serie di duetti e arie per lo stesso organico previsto nell’antecedente di Scarlatti: due voci femminili, archi e basso continuo. Nonostante la relativa povertà dei mezzi a disposizione, la varietà di soluzioni timbriche, di volumi e di tecniche compositive, rende i dodici numeri dello Stabat Mater molto differenti l’uno dall’altro. Oltre alla celebre apertura, particolarmente degni di nota sono i passaggi in forte dissonanza nel duetto O quam tristis et afflicta, l’incedere degli archi nell’aria del soprano Cujus animam gementem, o ancora la placida accettazione che rischiara Quae moerebat et dolebat: la sospensione delle tinte fosche circostanti rende ancora più incisivo lo scenario funereo del seguente Quis est homo, qui non fleret, enfatizzato dalla ben nota linea cromatica discendente del basso, espediente retorico assai comune per simboleggiare la Passione cristiana. Il basso è di nuovo particolarmente in vista nell’irruento duetto Fac, ut ardeat cor meum, in cui partecipa con le due voci ad uno spettacolare fugato; il rigore contrappuntistico torna – dopo il lungo e teatrale Sancta Mater, istud agas – nel duetto finale, Quando corpus morietur, nella stessa tonalità del numero d’apertura, a cercare una simbolica chiusura del cerchio, un’accorata preghiera intreccia vari spunti imitativi, che diventano un’ingegnosa fuga a tre voci sul tradizionale Amen conclusivo. Per quanto essenziale, composta, efficace, la pagina finale dello Stabat Mater non poteva non attrarre la maestria contrappuntistica di Bach, che nella sua parodia estende la fuga al doppio della lunghezza originale. Dopo tutto, come osservato dal musicologo Alfred Einstein, l’ultimo numero dell’opera pergolesiana tradisce una certa fretta nella scrittura; e non è improbabile che questa sia originata dalla consapevolezza di avere ormai poco tempo a disposizione.