UOMMENE BASTARDI DA UOMMENE DI PIETRA MONTECORVINO, A POPPEA, AD ARTEMISIA GENTILESCHI

enzo buonaUommene cantata da Pietra Montecorvino (lanciata da Renzo Arbore in F.F.S.S. e protagonista di  film capolavoro come Passione, di John Turturro. e La grande bellezza di Paolo Sorrentino ), non è solo una canzone, è il grido di rabbia delle donne e la loro forza di opporsi alla violenza .  Nella canzone colpiscono alcuni versi: 

"Femmen cundannate a na vita int o scur dint a ll'uocchie a paura pure e parlà e ppe cumpagna na mala sorte ca nu tiemp pareva sciorte  Ma nu juorno è cagnat o vient e l'ammore s'è fatt turmiento.Uommene nun me fa ridere rice pure "je a vulev bene" Chiagnere mo nun serve cchiù chi vò bene nun mett e catene"

Perché gli uomini non picchiano per troppo amore. Perché un uomo violento lo è sempre stato e non cambia. Perché la persecuzione e la gelosia morbosa non arrivano dal troppo amore. Troppo spesso le donne non si accorgono, o non vogliono accorgersi, di come la persona con la quale si svegliano ogni mattina, la stessa che le bacia tutti i giorni, sia in realtà un mostro e non l’uomo che dice di amarle. Fanno finta che quel brutto livido sotto l’occhio se lo siano procurate cadendo dalle scale, che quei graffi e quelle costole rotte siano causati dalla sbadataggine. E per anni, per una vita intera, coprono i loro aguzzini. Spesso come tante crocerossine. mettendo da parte ogni velleità in nome di un amore che ci fa sentire vive e utili. Amori basati sul rapporto vittima-carnefice.

 

Quella sofferenza che aveva provato la grande pittrice del seicento, Artemisia Gentileschi, una femminista ante litteram. Una donna che aveva creduto nell’amore e ne era rimasta ammaliata, ma che divenne un dardo avvelenato che le infettò il sangue di dolore e vendetta, di violenza contro la bramosia degli uomini.

Artemisia a 18 anni subì uno stupro dal suo maestro, Agostino Tassi, collega del padre di Artemisia, Orazio Gentileschi. Questo atto di violenza, di cui rimangono i documenti processuali custoditi negli archivi vaticani, permeò a fondo tutta la sua arte . A Napoli, nel Museo di Capodimonte, c’è un quadro del 1620, Giuditta che taglia la testa di Oloferne, ispirato al racconto dell’Antico Testamento, quando durante il regno di Nabucodonosor, Giuditta, una bella fanciulla ricca e vedova, abitante di Betulia, assediata dal generale assiro Oloferne, decide di salvare la sua città. Una notte la ragazza, accompagnata da una vecchia serva passa in territorio nemico, fingendo di tradire i suoi concittadini. Oloferne cade nel tranello e la accoglie bene, convinto anche di poterla possedere. La invita a un banchetto e si ubriaca di vino: Giuditta quindi si introduce nella sua tenda con la serva e con due colpi di spada gli stacca la testa, la avvolge in un panno e la porta in mostra al suo popolo, il quale, confortato dal successo del gesto, sconfigge gli Assiri sconvolti dalla morte del loro generale.

Nel quadro della Gentileschi si vede l’istante preciso in cui Giuditta decapita Oloferne, ed a chi ha interpretato il quadro, racconta proprio la storia di quello stupro, l’atto liberatorio e senza rimorso di una donna che ha ancora negli occhi il volto del suo aggressore. Artemisia affidò ad una lettera piena di rabbia e fermezza i suoi belligeranti e risoluti pensieri:

“Sulla tela vendicherò il mio stupro. Datemi un esercito, che voglio combattere; datemi un campo di battaglia e sentirete lo schianto della mia forza contro la sua mitezza; il clamore della mia violenza contro il bisbiglio della sua bontà da sacrestia. Datemi una guerra perché, a 21 anni, ho armi ben forgiate, spade da affondare nella lussuria di principi e cardinali in forma di Cleopatre, Lucrezie, Veneri e Susanne; picche da infilzare nelle perversioni dei miei committenti a guisa di Giuditte, Maddalene e Giaele. Tutti desiderabili nudi di donne cui infliggere torture o da cui ricevere dolore: questo mi hanno fatto gli uomini, questo io voglio restituire alla loro impudica bramosia….

Donne pittrici ma donne anche che vogliono farsi largo in politica, ma a costo della vita. Come Poppea la seconda moglie di Nerone. Ma al tempo dei romani, ad una donna non si perdonava mai la capacità di controllare un uomo, men che mai se quest’uomo era un imperatore. Non a caso Poppea, fu uccisa mentre era incinta, a causa di un fortissimo calcio in ventre sferratole da Nerone, (qualche storico afferma nella tenuta di Oplonti sebbene, gli scavi non abbiano mai riportato resti umani nella villa). Quello stesso Nerone che aveva già fatto uccidere la madre Agrippina e la prima moglie Ottavia. Un gesto crudele, dal significato simbolico spiccatamente misogino, poiché Poppea fu con disprezzo oltraggiata nella parte più delicata del corpo femminile, quella in cui risiede il potere procreativo. Tacito negli Annales, XVI, 6, così descrive il fatto:

Finiti i giochi quinquennali, morì Poppea, vittima di un improvviso scatto d’ira del marito: era incinta e lui la colpì con un calcio. Infatti non credo alla tesi del veleno perché l’imperatore desiderava molto avere dei figli ed era pazzo d’amore per la moglie. La sua salma non venne cremata come si usa a Roma, ma fu imbalsamata con sostanze aromatiche, secondo la tradizione dei re stranieri, e tumulata nel sepolcro della famiglia Giulia.

Pare che Nerone non trovò poi più pace da allora: come racconta Svetonio, l’imperatore trovò consolazione solo tra le braccia del liberto Sporo, che gli ricordava Poppea. Lo fece castrare e si sposarono: potremmo dire che il loro fu il primo matrimonio gay della storia.

 *docente di marketing turistico e local development