L'APPOCUNDRIA NAPOLETANA: DA PINO DANIELE AD ANASTASIO (PASSANDO PER EDUARDO, LEOPARDI E MALHER)

enzo buona

Esistono parole napoletane il cui significato va ben oltre la semplice definizione e che racchiudono sfumature e sentimenti indefinibili come appucundria. Una parola dal greco ὑποχόνδρια (ὑπο= sotto e χόνδριος = costola) in cui i greci indicavano un dolore addominale, collegato allo scoramento, sconforto… Alcuni la accostano alla famosa “saudade” brasiliana ma mentre l’appocundria è legata alla sfera intima e individuale, la saudade è un sentimento comune “simbolo” o “vessillo” di un popolo.

Spiegare l’appocundria non è semplice: uno dei pochi a riuscire a restituire la forza disarmante di questo sentimento, attraverso la musica, è stato Pino Daniele, che nell’album “Nero a metà” del 1980 così la descrivr «Appocundria me scoppia / ogne minuto 'mpietto /peccè passanno forte / haje sconcecato 'o lietto /appocundria 'e chi è sazio / e dice ca è diuno /appocundria 'e nisciuno…». 

Quella fatalistica accettazione del proprio destino, mista a scetticismo, tristezza dolorosa che si avvicina alla malinconia ma che trascina noia, insoddisfazione e solitudine. E che non la si può negare. Essa è lì: non ha volto, diversamente dalla sofferenza per amore, ti è compagna e devi aspettare che passi, così, all’improvviso, com’è arrivata.

Non soltanto un mood ma una presa di coscienza; la consapevolezza della propria transitorietà in confronto all’infinità del mondo, dove siamo stati gettati al momento della nascita. Il protagonista del leopardiano “Canto di un pastore errante dell’Asia” non era forse anch’egli preda di questo sentire?

E questa lotta quotidiana contro il letto/pozzo/sabbia mobile, simbolo della sofferenza è stato il leit motiv del successo di Anastasio, nella canzone "La fine del mondo”. Quelle strofe choc che parlano della perdita di ogni orientamento esistenziale, della impossibilità di perseguire e realizzare i propri obiettivi di vita, di una perenne appocundria. Non si dorme, non si è svegli, ma si è bloccati in uno stato di immobilità che non prevede a breve il cambiamento. Anastasio è solo davanti al “mondo” un individuo che, privato del valore dei corpi intermedi (famiglia, scuola, partito, sindacato) e della loro vivibile parzialità, è nudo e solo davanti alla totalità. Ma che dove alla fine si è tutti (“io”) soli davanti allo stesso Sole.

Eduardo De Filippo, in “Fantasia”, una sua poesia del 1956, ci suggerisce un’azione di difesa, una procedura d’emergenza per uscire fuori dalla palude ipocondriaca: chiedere aiuto alla fantasia, la quale rende aerei i pensieri più pesanti, ci libera dallo sconforto e c’invita a prendere la vita come viene, senza macerarci troppo nell’autocompatimento.

Forse una altra ricetta, per contrastare questa sirena che viene a visitarci a tradimento potrebbe essere il contrario di ciò che fece Ulisse: non dei tappi di cera per non udir le voci delle semidee, non robuste funi per restare legati all’albero maestro della nave, ma mente e cuore e orecchie disposte all’ascolto di un bel brano musicale; perché,  come espresso da Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, «Senza la musica la vita sarebbe un errore» e sarebbe davvero un errore non gustare, ad esempio, gli ultimi minuti di “Resurrezione”, il finale della Seconda sinfonia di Mahler, definita da Claudio Abbado una delle più toccanti musiche di ogni tempo: totale armonia di mente e di cuore, poesia e clamore, paura e consolazione, conoscenza ed emozione. Che metterebbero in fuga anche la più pervasiva delle appocundrie.

*docente di marketing turistico e local development