enzo buonaIL SARTU' NAPOLETANO, 44 INGREDIENTI E METAFORA DELL'EGUALITARISMO

Alla fine del 1300, da “mangiafoglia”, consumatori di verdura, i napoletani stavano diventando “mangiamaccheroni”, appellativo al quale tutt’oggi  vanno fieri. In quello stesso periodo, era arrivato a Napoli un altro alimento: il riso che dalla Spagna, viaggiava nelle stive delle navi degli Aragonesi che venivano a prendere possesso del regno di Napoli.

Ma tra quei chicchi bianchicci ed insapori e popolo napoletano non ci fu subito feeling. Nutrienti si, ma troppo leggeri, sciapiti, si diceva, tutt’al più uno sciacquapanza buono per gli stomaci deboli, una medicina che la Scuola Medica Salernitana non a caso prescriveva come cura per  le affezioni intestinali.

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E’ per questo motivo che i napoletani non si strapparono i capelli  quando il riso, pur avendo avuto Napoli come prima destinazione, emigrò in Lombardia, Piemonte e Veneto. I napoletani ignoravano però che, il riso un giorno sarebbe tornato, con tutti gli onori grazie ai francesi e soprattutto grazie ai loro cuochi, i monsieur, napoletanizzatisi in monsù, chiamati per ingentilire le cucine dell’aristocrazia partenopea.

Narrano le cronache, infatti, che Ferdinando I di Borbone (detto anche re lazzarone o re nasone) e la sua corte di nobili non amassero per niente il riso, anche perché si diceva cibo considerato fonte di sfortuna, utile solo per sfamare la gente povera e malata. Non a caso, dopo aver sposato Maria Carolina d’Austria, che non amava la cucina napoletana, il menù regale con i monsù, cambiò radicalmente. Ne scaturì una cucina nuova, connubio tra estro francese e cultura culinaria napoletana dove nacquero monumenti quali appunto il sartù, il gattò, il ragù, il babà, i crocchè, i timballi ecc. Il riso allora, espulso anni prima dalla cucina napoletana e relegato a medicina insipida e sgradevole, fece il suo ritorno sulle tavole napoletane. Ma bisognava camuffarlo, con un mix di prelibati alimenti familiari ai fini palati partenopei. Così, i cuochi francesi inventarono una gustosa ricetta servendola su un grande vassoio detto “sourtout”, posto al centro della tavola; inizialmente riso contornato con la salsa “ca’ pummarola”. Ma ciò non bastava, il riso restava, anche se rosso, ancora uno “sciacquabudelle”. I monsù decisero allora di arricchirlo anche con melanzane fritte, polpettine e piselli. Quella base di riso, diventò un croccante involucro, in una presentazione trionfale e scenografica come solo un cuoco francese sa fare. Da  surtout, camuffamento,  ironicamente definito in un divertissement tutto francese e poco accessibile alla nobiltà napoletana, divenne sartù in un attimo, et voilà, le jeux sont fait.

Il ricco piatto fu molto gradito dal re e dai nobili ed in pochi anni divenne uno dei piatti più amati dai napoletani. Dalla tavola dei ricchi via via passò anche a quella dei poveri, soprattutto nei giorni di gran festa. Oggi il Sartù, piatto prelibato e saporito della tradizione partenopea classica è inserito nell'elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) a dimostrazione della elevata connotazione tradizionale acquisita nel tempo. Viene preparato in diverse versione: bianco, rosso, light, vegetariano. A Napoli ed in Campania è spesso preparato non solo nei giorni di festa, ma anche il lunedì per poter consumare il ragù rimasto della domenica di cui si utilizza sia il condimento che alcuni pezzi di salsiccia. Preparando poi delle piccole polpette fritte con carne, pane raffermo ammollato, uova e formaggio grattugiato assieme alle rigaglie (fegatini di pollo) tagliate a pezzetti;ed aggiungendo piselli precedentemente cotti in un soffritto di cipolla;  A parte si lessa il riso.  Qualcuno ha certificato anche che per fare un vero sartù ci vorrebbero addirittura 44 ingredienti. Vero o falso, non cambierebbe il significato di questo piatto.

Di certo il sartù è l’incarnazione culinaria di quella Napoli che Anna Maria Ortese chiamò “la città involontaria”, che senza sosta si scompone e si ricompone, e sa mettere ordine nel suo caos quotidiano attraverso piroette culturali talvolta impensabili.

Il sartù nacque nelle cucine aristocratiche. Quel nome francese fu garanzia di nobiltà: ma, per fortuna, la nobiltà napoletana più è nobile, più ha bocca e cuore plebei. Capitò al sartù quello che accadde a Lilì Kangy, la “chanteuse“, la sciantosa, la protagonista che diede il titolo alla canzone di Giovanni Capurro e di Salvatore Gambardella: chi me piglia pe’ francesa / chi me piglia pe’ spagnola:/ ma so’ nata ‘o Conte ‘e Mola / metto ‘ a coppa a chi vogl’io . ‘ A coppa: al di sopra: sur tout, anche lei, Lilì Kangy.

Enzo Longobardi

dovente di marketing turistico e local development