CARAVAGGIO A NAPOLI: IL MITO TRA QUATTRO LUOGHI COMUNI

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Un'anima divisa in due, un ribelle che non si lasciò scalfire dai dogmi della Chiesa, pur rispettando il Divino. Un uomo che visse di contraddizioni proprio come quella Napoli che lo accolse e che ne custodisce oggi tre capolavori: Le sette opere di misericordia, al Pio Monte della Misericordia, La flagellazione di Cristo, a Capodimonte, e Il martirio di sant’Orsola, a Palazzo Zevallos.

Napoli nel periodo di Caravaggio ha due facce. quella pittoresca e chiassosa, fatta di vicoli, case e chiese; l’altra, silenziosa, misteriosa e buia della Napoli sotterranea. Era una delle città più popolate d’Europa: 400.000 abitanti (Roma ne contava a stento 100.000). Era sotto il dominio della Spagna, anzi ne era una vera e propria piazzaforte, come dimostrano i tre castelli, che ospitavano migliaia di soldati spagnoli. In quel periodo, malgovernava, il viceré Pimentel de Herrera, conte di Benavente. Dilagavano delinquenza, contrabbando, prostituzione, estorsioni. Anche Caravaggio si immerse in questo mondo: frequentava osterie, bische, locali anche sordidi (fu all'osteria del Cerriglio, nel 1610, che venne gravemente ferito, pochi giorni prima della morte): insomma frequentava i personaggi ed il clima narrativo delle Sette opere di Misericordia.

Proprio per tentare di creare qualche conforto alla miseria della popolazione, sette nobili napoletani nel 1601 fondarono il Pio Monte della Misericordia, il cui scopo era dare aiuto ai poveri e diseredati, seguendo il credo cristiano delle sette opere di misericordia corporali: dar da mangiare agli affamati; dare da bere agli assetati; vestire gli ignudi; alloggiare i pellegrini; visitare gli infermi; visitare i carcerati; seppellire i morti. Il Pio Monte allestì una splendida cappella, nella quale fu pensato di ospitare una pala d'altare che esaltasse le opere di misericordia, da affidare appunto alle mani del Caravaggio, che da pittore aveva capacità non comuni di "fotografare" le situazioni. Il Merisi colse immediatamente lo "spirito" della città, vi si immerse al punto tale che molti credettero che facesse la vita del balordo, perché solo uno che viveva così bene la miseria avrebbe potuto compenetrarsi così bene in quelle viscere.

Ma era davvero così? Analizzando bene la sua vita napoletana possiamo trovare e quindi sfatare quattro luoghi comuni cari alla maggior parte dei fan del pittore. A Napoli, Caravaggio era arrivato da condannato. E’ vero perché nel 1606 aveva ucciso a Roma il giovane Ranuccio Tommasoni, forse per questione di donne. Caravaggio era si un assassino ma un uomo del suo tempo. Ricordate “I promessi sposi”? ambientati più o meno all’epoca di Caravaggio. Pensiamo a personaggi come Don Rodrigo e i suoi gaglioffi, poco che non si preoccupati di andare armati, ubriacarsi, fare a botte, minacciare, uccidere. All’epoca gli omicidi erano all’ordine del giorno quindi non meravigliamoci quando sentiamo che Caravaggio ha ucciso un uomo: la gente del ‘600 aveva un concetto della violenza differente rispetto a quello che abbiamo noi oggi. Poi c’era un forte senso dell’onore e per gente agiata, come lo era lui, che conosce Papi e cardinali, alzare il gomito, fare delle risse, pugnalare avversari e poi farla franca era un fatto normalissimo e le cose rimarranno così per molti anni ancora.

Secondo luogo comune: la condanna a morte esisteva sulla testa del Caravaggio Chiunque avrebbe potuto arrestarlo, ucciderlo e riscuotere la taglia. Pena severissima, ma in pratica formale. Nel ‘600 vi era una società clientelare: tutti si proteggevano,Tizio proteggeva Caio, Caio, Sempronio e così via. Il bando capitale era una condanna prevista dalla legge ma difficilmente la si attuava. È come se significava: “Tu sparisci dalla circolazione per un po’ e poi vediamo se le cose si mettono a posto.” Vedere chi può metterci una buona parola, magari pagando qualcosa per avere uno sconto di pena ecc. Caravaggio aveva tanti nemici, ma ha anche tanti amici potenti, disposti a tutto pur di aiutarlo.

Terzo luogo comune: la vita di Caravaggio a Napoli non era male. Si racconta di un uomo in fuga disperato e tormentato. Tutt’altro. La città partenopea lo accolse con gli onori che la sua fama richiedeva. Il pittore, onorato e riverito, trascorreva il tempo frequentando collezionisti, intellettuali. Era ospite dei principi Colonna, una delle più importanti e influenti famiglie dell’epoca. Ma non solo, era anche sotto la protezione del vice re di Napoli, l’uomo più potente della penisola dopo il papa. Il Merisi viveva nel lusso di suntuosi palazzi con personaggi di questo calibro che gli dicevano: “Tu dipingi, per il resto non ti preoccupare che ci pensiamo noi a mettere una buona parola, non corri nessun rischio.”

Quarto luogo comune: anche il fatto che dipingesse tutte quelle teste decapitate perché si pensava che potesse rivederci se stesso in quei soggetti quantunque un fondo di verità ci fosse, anche là vi era una forzatura. Ricordiamoci che nell’antichità gli artisti nella maggior parte dei casi non dipingevano ciò che volevano ma ciò che veniva loro commissionato. Non a caso al Merisi gli furono richiesti anche dipinti di San Francesco ma su cui non si è poi fatta in seguito nessuna congettura.