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Didattica a distanza vista dalla psicologa Elisa Caponetti

Si intitola “Vittime di violenza: storie di ordinaria quotidianità” il nuovo libro di Elisa Caponetti, fuori per Edizioni Albatros. In un’epoca in cui tutto sembra essere permesso, consentito ed addirittura sollecitato, diventa sempre più difficile differenziare ciò che è normale da ciò che non lo è.

E così delimitare un confine tra normalità e patologia diviene a volte davvero arduo e labile. Assistiamo ormai quotidianamente a talmente tante e diverse forme di violenza che sembriamo esserne quasi assuefatti, ritenendo alcuni agiti normali quando invece non lo sono. L’aggressività fa talmente tanto parte dei nostri giorni che diventa difficile riconoscerla in tutte le sue forme e riuscire a ribellarsi. Basti anche pensare ad alcuni testi delle canzoni che inneggiano a soprusi e atti di ferocia inauditi o a quanto accade per strada, dove le scene di prepotenza sono all’ordine del giorno, dove taluni automobilisti alla guida sono facili alla perdita di controllo, o ancora, a ciò che accade troppo spesso nelle scuole, in tv, in famiglia, sul lavoro, verso i soggetti ritenuti più fragili e deboli, individualmente o in gruppo, sul web in anonimato o a volto scoperto e in alcune chat dove si incute un vero e proprio terrore esaltando agiti di odio e aggressività. Eh, già! Ormai ogni giorno assistiamo a fatti di cronaca delittuosi, dove si consumano agiti violenti, tra entrambi i sessi, in tutte le culture ed a tutte le età. Bambini bulli, adulti stalker, uomini che rappresentano le Istituzioni e che commettono azioni delinquenziali (vedi i recenti fatti dei carabinieri della caserma di Piacenza, accusati di gravissimi reati), infanticidi, uomini maltrattanti e via di seguito. Pur trattandosi di forme diverse di violenza, vanno tutte condannate. L’aggressività deve ritenersi un atto criminale contro l’intera collettività oltre che verso il singolo individuo che la subisce. Spesso, invece, si è incapaci di distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Nulla sembra essere chiaro e definito. E a volte chi deve proteggere non lo fa. Da professionista che opera sia in ambito clinico che giuridico forense, con un’esperienza quasi trentennale sul campo, ho deciso di provare a dar voce ad alcune tra le tante storie raccolte nel mio percorso quotidiano. Mi occupo di questi temi sia come Psicoterapeuta che come Consulente Tecnico d’Ufficio e Perito del Tribunale, svolgendo la mia attività in ambito sia civile che penale e minorile. Mi trovo così a ricevere nel mio studio sia chi subisce situazioni di violenza e maltrattamento, sia chi vive contesti di alta conflittualità ma a volte anche chi i soprusi li agisce. Come Psicoterapeuta, si rivolgono a me spesso donne che con fatica chiedono aiuto nel tentare di attuare una ricostruzione della propria esistenza dopo un’avvenuta devastazione, ma anche persone che invece non hanno consapevolezza dei reali rischi che incorrono in quanto, al momento della richiesta di aiuto, sono incapaci di riconoscere che stanno vivendo una relazione violenta. Così, spesso giungono con la richiesta implicita di “normalizzazione” della relazione che stanno vivendo dove per normalizzazione s’intende il loro bisogno di sapere che quel rapporto che hanno in essere può 14 diventare sano e funzionale e con essa la speranza illusoria di poter cambiare il proprio marito/compagno. Come Consulente Tecnico d’Ufficio o di Parte, devo gestire situazioni molto conflittuali dove i procedimenti penali per violenza e maltrattamenti in famiglia sono ormai all’ordine del giorno. E spesso si osservano particolari dinamiche in cui le aggressioni vengono agite anche attraverso i figli tramite atteggiamenti finalizzati a garantirne la propria esclusività, come se il figlio minore fosse un qualcosa da dover possedere in modo esclusivo eliminando completamente, o tentando di farlo, l’altro genitore e, per far ciò, utilizzando a volte ogni possibile mezzo. Ed è così che mi ritrovo ad ascoltare donne ma anche uomini che raccontano le loro storie con i loro drammi, i loro sogni, le loro paure, le loro fragilità, ma anche i loro traumi, che in fondo rappresentano le inquietudini dei nostri giorni. Riuscire sempre a leggere la violenza nella sua complessità, senza banalizzazioni e generalizzazioni, è il mio approccio e la mia grande sfida. Nulla va mai dato per assodato. L’ascolto è sicuramente una componente essenziale nella mia professione, ma essere psicoterapeuta implica una complessità di fattori da dover tenere sempre presente. È difficile saper cogliere tutto ciò che c’è dietro il mio lavoro, soprattutto a chi non ha mai avuto modo di confrontarcisi. Far questo non è sempre facile. Non bisogna mai semplificare e cadere nello scontato, anche storie che sembrano essere simili tra loro sono caratterizzate da unicità. Niente può essere semplicemente ciò che sembra. E così bisogna incessantemente riuscire a cogliere la complessità che c’è dietro quest’attività, la capacità di saper mantenere l’attenzione ininterrottamente e contemporaneamente su livelli diversi di analisi, il non tralasciare uno sguardo o un particolare movimento del corpo, solo così si può riuscire a cogliere il vissuto 15 che ci viene portato e con esso la profonda sofferenza che l’accompagna. L’abilità nel riuscire ad entrare nella vita delle persone che si presentano per la prima volta davanti ai nostri occhi, coglierne la disperazione ed il considerarci, spesso, l’unica possibilità di uscita, la via di salvezza. La capacità di saper trovare per ognuno di loro una differente chiave di lettura ed un accesso, saper giocare con chi ci è di fronte e leggere le loro menti, attivare parti diverse di noi in base alle diversità dei nostri pazienti. Saper essere un po’ camaleonti. Se non si riesce a fare tutto questo, rischia di svanire per sempre quella a volte labile ed iniziale richiesta d’aiuto che ci viene fatta. È sufficiente sbagliare un gesto o una parola, per compromettere le loro vite e quella che può essere la loro unica possibilità di invocazione di sostegno. Al di là delle tecniche, delle regole del setting e del contesto psicoterapeutico, ciò che funziona con una persona può non funzionare con un’altra, da qui si vede anche la maggior capacità del professionista, la padronanza con il proprio mestiere nonché il sapersi mettere completamente in gioco ed essere pronto a cambiare insieme al paziente stesso che abbiamo davanti. Nel mio piccolo, mi auspico che questo libro, attraverso il racconto di storie, possa essere utile a mettere in luce che lo stesso psicoterapeuta può avere dei limiti e può essere soggetto a turbamenti interiori proprio come quelli vissuti dalla persona che ha di fronte, con la consapevolezza che alcune storie risuoneranno più di altre con vissuti personali interni e profondi. La componente umana e la sensibilità, la preoccupazione per i propri pazienti e la consapevolezza della grande responsabilità che implica svolgere questo tipo di attività devono accompagnarci sempre. Fare questo lavoro rappresenta anche un grandissimo pri- 16 vilegio ed un arricchimento personale che si ha ogni volta che un nuovo paziente ci dà la possibilità di essere partecipi dei suoi dolori, delle sue ansie, dei suoi drammi e di tutto ciò che lo riguarda, mettendosi (se il terapeuta è bravo) completamente a nudo e facendo insieme, seduta dopo seduta, un percorso di scoperte e cambiamenti, senza mostrare paura e senza lasciarsi spaventare, consapevole che si attiveranno comunque processi profondi, inconsci e complessi. E da ogni singolo incontro anche il professionista uscirà cambiato, portando per sempre con sé un arricchimento interiore. Molto spesso si parla dell’autore del reato dando risalto al crimine commesso, ma raramente si studia e si dà voce alla vittima. Questo libro vuole offrire quindi non soltanto spunti di riflessione su questo complesso tema in chi come me svolge la propria attività in campo forense e criminologico, ma vuole avere anche l’ambizione di sperare di suscitare una qualche forma di consapevolezza in tutti coloro che si trovano a vivere una situazione di violenza (e purtroppo sono tanti) e che hanno difficoltà a riconoscerla o a chiedere aiuto. Per raggiungere questo obiettivo, ho dato spazio al racconto di alcune storie di donne che ho incontrato nel mio cammino, anche se ho trattato comunque altre forme di maltrattamento, non limitandomi a quello di genere. Ho scelto anche di inserire due storie di violenza raccontate dagli stessi protagonisti che l’hanno subita. Si tratta di due forme di soprusi completamente diversi: il primo agito principalmente psicologicamente (da un uomo su una donna), nel secondo, noto fatto di cronaca, la violenza è culminata fisicamente con una ferocia inaudita (da una donna ai danni di un uomo) ma entrambi i racconti sono altrettanto drammatici, anche se ovviamente hanno avuto risvolti ed esiti completamente diversi. Si ringraziano Roberta Beta e Giuseppe Morgante. Nel libro ho inserito un’intervista a Filomena Lamberti che si ringrazia per la grande disponibilità. Un ringraziamento va poi all’Avvocato Maria Letizia Sassi, penalista del Foro di Roma e al Questore di Caltanissetta, già Questore di Cuneo, il Dr. Emanuele Ricifari, che ha ricoperto precedentemente l’incarico di Direttore Servizio Anticrimine della Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato, per gli importanti contributi offerti. Se dalla lettura di questo libro si attiverà una richiesta di aiuto, anche solo da parte di una vittima di violenza, questo per me sarà già un gran successo. In ultimo, ma non certo per importanza, voglio esprimere il mio ringraziamento per la sua prefazione a Gian Marco Chiocci, direttore di Adnkronos, già direttore de Il Tempo, da sempre impegnato in prima linea nell’affrontare questi importantissimi temi.

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