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Lunedì 10 agosto 2020, alle ore 21.30, in largo Santa Maria dei Barbuti, nel centro storico di Salerno, nell’ambito della Notte dei Barbuti, rassegna inclusa nella XXXV edizione del “Barbuti Festival”, andrà in scena Il Teatro Felino in “Una piccola cosa ma buona”, atto unico ispirato ai racconti di Raymond Carver. Con: Simona Fredella, Andrea Palladino, Alessio Sordillo.   Drammaturgia e regia di Mario Perna. (ingresso 10 euro www.postoriservato.it).

 

Una cosa piccola ma buona, prodotto dalla compagnia Teatro Felino, è stato messo in scena per la prima volta nel 2019, in una versione ridotta, presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno. Nel 2020 lo spettacolo è stato selezionato per la trentacinquesima edizione del Napoli Teatro Festival Italia, dove ha debuttato nella sua versione estesa, presso il Giardino Romantico di Palazzo Reale, a Napoli. Il testo, ad opera del drammaturgo e regista Mario Perna, si ispira alle atmosfere dei racconti dello scrittore americano Raymond Carver, ed in particolare alle vicende narrate in A Small Good Thing, racconto del 1983. Lo spettacolo non è adatto ad un pubblico inferiore ai quattordici anni.

Nel 1983 Raymond Carver scrive A Small Good Thing, breve racconto che rientra oggi tra i classici della scrittura carveriana, presente all’interno della sua terza celebre raccolta intitolata Cattedrale. Da abilissimo scrittore quello che fa Carver con i suoi personaggi è intrappolarli in una fotografia sfocata, tagliando dei pezzi delle loro vite e restituendole incomplete a chi legge, come nel racconto da cui prende piede questa pièce. Quella di Carver è una scrittura interna, visuale, intima. Portare un racconto come questo in scena significa tirare fuori l’intimità di un personaggio, fingendo di non stare a guardarlo, mettendosi piuttosto a spiarlo da un occhiello impolverato, imponendogli quanti più confini possibili, per far sì che non possa fare altro che vivere le emozioni che il testo gli suggerisce. Quando si lavora drammaturgicamente partendo da un materiale “breve” come quello di un racconto, bisogna basarsi non tanto su ciò che c’è scritto, ma su quello che si prova leggendo, sulla riflessione che testo offre, un po’ come viaggiare senza bussola e orientarsi con le stelle (il quale non a caso è il titolo dell’antologia delle poesie di Raymond Carver). Gli attori si muovono in uno spazio segnato da piccoli elementi che suggeriscono i luoghi in cui si trovano ma non li definiscono, come si fa appunto in un racconto, dove non ci si perde in fitte descrizioni, ma si lasciano piuttosto delle tracce. Anche il tempo è indefinito, ci si muove in frammenti come un orologio che cammina a scatti, raccogliendo attimi salienti di giornate lunghe, faticose, caduche e povere d’azione. È l’orologio incessante della normalità, di ciò che è comune, banale, fuori dagli schemi della spettacolarità, contornato da un’insostenibile e gravosa leggerezza. Ogni parola ha un ruolo, ogni gesto è un mezzo, un tramite verso una soluzione lontana e apparente che non può trovarsi all’esterno, ma solo all’interno di questi vividi esseri inanimati che sono i personaggi, assistendo alla fatalità annunciata della relazione che prende vita tra di essi.

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