Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

Stampa
Visite: 2102

CU' MME',  MUSICA DELL'ANIMA CHE CI INVITA A PASSARE DAL DOLORE AL PERDONO

enzo buona“Cu’mme” è una delle più struggenti canzoni napoletane. Fu scritta nel 1990 di Enzo Gragnaniello (nato nel 1954 nel vico più stretto di Napoli, vico Cerriglio, dove fu ferito il Caravaggio) e cantata da Roberto Murolo e Mia Martini nell'album “Ottantavoglia di cantare”. Musica dell’anima, diremmo oggi, già nota per i greci antichi. Non a caso Platone nel Timeo diceva “La musica è una legge morale. Essa dà un’anima all’universo, le ali al pensiero, uno slancio all’immaginazione, un fascino alla tristezza, un impulso alla gaiezza, e la vita a tutte le cose”

“Cu’mme” fu un clamoroso successo, e cantata da Mia Martini sembrò quasi autobiografica, per il tormento che la cantante stava passando in quegli anni, rivelatisi gli ultimi della sua vita. Un’ode triste e nostalgica, un’ode al mare e all’anima, la quale non vuole più soffrire, che si tormenta nel vivere quotidiano che brama di trovare identità e serenità attraverso un viaggio nel profondo del nostro essere tralasciando le cose futili della vita. Un invito a salire, a volare, a farsi portare dal vento in un luogo dove tutto è più bello, un luogo dove si può imparare a vivere.

Cu’mmè infatti tratta di una delle esperienze umane più significative e più laceranti, quella del dolore dell’anima, che non è il dolore del corpo. Canta di quella sofferenza che tende a separarci dal mondo delle persone e delle cose; isolandoci e incrinando, in misure diverse, le nostre relazioni con gli altri. Troppe oggi sono infatti le persone che soffrono, ripiegate su se stesse, pervase da un dolore che invade ogni cosa, in un mondo che appare nemico, pericoloso o senza senso.

Persone senza energia che riescono solo a sopravvivere e quelli che pensano di non aver diritto a star bene, come se il benessere fosse un’illusione, che li farebbe soffrire ancora di più. Persone che stanno male per la mancanza di significato oppure perché non si sono assunti la responsabilità di vivere appieno; persone che credono di dover capire prima di vivere e non pensano che è vivendo che si capisce; altre ancora che pensano che solo tenendo tutto sotto controllo si possa sopravvivere oppure che esista un bene e un male a priori e una perfezione che va ottenuta a tutti i costi.

La teologia naturale fornisce un certo conforto e spiegazione alla sofferenza dell’anima. Sappiamo che Dio è bontà infinita ed onnipotente. Dunque il male originato nella creatura personale, perché disobbediente alle leggi divine, decaduto da un’innocenza originaria in seguito ad una colpa, cosa che può fare solo chi dotato di libero arbitrio. Il peccato che allora merita la pena.

La filosofia morale indica la pazienza nelle sventure e nelle prove, insegna il sacrificio e la rinuncia, comanda di combattere o alleviare la sofferenza, in particolare quella che è causata dalle malattie del corpo e della mente, prescrivendo solidarietà e pietà per i sofferenti.

Credo che la fisica quantistica, in cui nessuno è escluso dall’influsso degli altri e nessuno può tirarsi fuori, possa anch’essa indicare una strada, attraverso il perdono, ma non quello in senso religioso, quello di chi dice non importa, o subisce, o si sente bravo perché capace di dire “ti perdono”, ma un movimento della coscienza per la coscienza stessa, e che riguarda solo noi stessi, lasciando la posizione di vittima per assumere quella di uomo o donna responsabile.

Perdonare vuol dire amare se stessi: significa assumersi le responsabilità della propria vita, abbandonare la posizione di vittima, sapere che gli altri sono solo specchi che ci aiutano, anche ferendoci, ad accorgerci, a vedere le nostre rigidità, invitandoci a trasformarle. Che tutti gli esseri provano emozioni e commettono errori di giudizio, e che noi non siamo da meno. Che ogni sbaglio è funzionale alla nostra evoluzione, ed è così per gli altri.

Perdonare non significa né giustificare né scusare i comportamenti dell'altro, e non esclude le sanzioni morali o legali previste per comportamenti inaccettabili; significa comprendere perché ha agito in quel dato modo e per quale motivo noi ci siamo trovati in quella data situazione nel corso della nostra evoluzione.

Ecco perché non è per l'altro che è importante perdonare, ma per noi stessi; per liberarci delle sofferenze interiori. Per sapere se abbiamo davvero perdonato un persona, basta osservare come ci sentiamo in sua presenza, o quando parliamo di lei. Quali ricordi tornano a galla quando la pensiamo, quando incontriamo qualcuno che ce la ricorda o che ha il suo stesso nome? Se emergono sempre ricordi negativi, o se proviamo un senso di disagio o di repulsione, vuol dire che non abbiamo perdonato. Se invece tornano a galla ricordi positivi, o se proviamo accettazione incondizionata o affetto sincero, vuol dire che l'abbiamo perdonata.

*docente di marketing turistico e local development

Autenticati