Rapporto Caritas 2020: è boom di nuovi poveri - Il Dubbio

Il Rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia nella sua edizione del 2020 restituisce una lettura dei gravi effetti economici e sociali che si affiancano a quelli sanitari dell’attuale crisi generata dalla pandemia da Covid-19.

Preoccupa lo scenario nazionale e internazionale: in Europa e in Italia si registra nel secondo trimestre del 2020 una grave flessione del Pil, il calo più marcato da quando si dispongono delle serie storiche (1995); in discesa anche l’occupazione a favore della crescita dell’inattività. Sembra, dunque, profilarsi il rischio di una grave recessione – che potrebbe essere, secondo alcuni, la più austera dalla grande depressione – che produrrà un impatto evidente sul benessere e la vita delle persone, favorendo anche la nascita di nuove forme di povertà. Il tutto si innesta in un tessuto, quello italiano, dove sono ancora evidenti gli effetti della crisi economica del 2008 e dove i poveri assoluti, privi cioè dei beni essenziali, sono oltre 4,5 milioni. Anche i dati dei centri di ascolto fanno presagire una crescita della povertà: da un anno all’altro l’incidenza dei “nuovi poveri” passa dal 31% al 45% (quasi la metà di chi si rivolge alla rete Caritas non lo aveva mai fatto in passato). Aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, dei nuclei di italiani e delle persone in età lavorativa. Accanto alla recrudescenza dei fenomeni di povertà già noti, si intravede, quindi, l’ipotesi di una nuova fase di “normalizzazione”, come accaduto a seguito dello shock economico del 2008. Tuttavia lo scenario che si presenta oggi è decisamente peggiore rispetto ad allora, quando i poveri assoluti erano circa 1,7milioni.

Allargando lo sguardo al mondo, preoccupano anche i dati della Banca Mondiale che per la prima volta dopo venti anni attestano la crescita della povertà estrema: le persone costrette a vivere con meno di 2 dollari al giorno salgono da 60 milioni a una quota che oscilla tra gli 88 e 114 milioni.

Si palesano poi disuguaglianze e sperequazioni sociali che il virus ha fatto emergere in tutta la loro crudezza, rendendole ancora più acute, e che non sempre i diversi sistemi di protezione sociale dei vari Paesi riescono a contenere.  Le disuguaglianze,  che assumono dimensioni macro a livello mondiale, si declinano poi in modalità diverse  all’interno dei singoli Stati. Anche in Italia, lo sappiamo, e l’intero volume lo testimonia, a pagare il prezzo più alto della pandemia sono proprio le persone più fragili e vulnerabili. Richiamando, ad esempio, la dimensione occupazionale, l’impatto della pandemia e dei conseguenti contraccolpi economici produce effetti diversi nei lavoratori precari, intermittenti o lavoratori a chiamata rispetto a chi ha un impiego con un contratto a tempo indeterminato. O ancora, si pensi alle disuguaglianze educative: in tempo di lockdown molte sono state le famiglie che non hanno potuto assicurare ai propri figli le apparecchiature utili per la didattica a distanza: alcuni ragazzi, quindi, hanno potuto frequentare con regolarità le lezioni, seppur con difficoltà, mentre per altri ci sono stati interruzioni o rallentamenti. Si può anche ricordare il tema abitativo: anche in questo caso lo stesso messaggio, “state a casa”, è stato percepito in modo diverso tra chi possiede un’abitazione e chi, costretto a vivere in strada, si è anche ritrovato a maggior rischio di contagio. Ecco dunque echeggiare le parole del Santo Padre, pronunciate durante l’Udienza generale del 19 agosto scorso, quando ha ricordato a tutti noi, come, oltre all’urgenza di trovare la cura per un virus, che sta mettendo in ginocchio il mondo intero, è necessario attivarci “per curare un grande virus, quello dell’ingiustizia sociale, della disuguaglianza di opportunità, della emarginazione e della mancanza di protezione dei più deboli”. Andare dunque alle radici della povertà, “per essere parte attiva nella riabilitazione e nel sostegno delle società ferite”.

E in tal senso le Caritas diocesane, proprio rinnovando la “scelta preferenziale verso i poveri”, fin dai primi giorni dell’emergenza Covid-19 hanno continuato a stare accanto agli ultimi e alle persone in difficoltà, mettendo in atto risposte diversificate, mai sperimentate in precedenza: pensiamo ai servizi di ascolto e di accompagnamento telefonici o l’ascolto organizzato all’aperto, la consegna di pasti a domicilio e la fornitura di pasti da asporto, la distribuzione di dispositivi di protezione individuale e igienizzanti, la messa a disposizione di alloggi per i periodi di quarantena e isolamento, i servizi legati all’acquisto e distribuzione di farmaci e prodotti sanitari o i servizi di assistenza psicologica. Una vivacità di iniziative e opere realizzate anche grazie alla disponibilità di oltre 62mila volontari, a partire dai giovani del servizio civile universale, che da nord a sud del Paese si sono spesi a favore dei più vulnerabili.

E ora, che siamo ancora immersi nell’emergenza, come guardare avanti?

Nel periodo del lockdown a fare la differenza è stata la possibilità di avere dei riferimenti territoriali saldi a cui rivolgersi per ricevere l’aiuto di cui si aveva bisogno, ma anche per essere orientati rispetto alle risposte che il Governo, da una parte, e le amministrazioni locali, dall’altra, stavano predisponendo. “Esserci” in quei giorni è servito a contenere i timori e il senso di pericolo, ha rappresentato una fonte di rassicurazione e, in alcuni casi, di speranza.

E proprio in tal senso è bene accorciare le distanze tra le risposte e coloro alle quali esse sono destinate, questo soprattutto nel caso degli interventi pubblici. Il percorso che porta le persone ad accedere alle misure nazionali e locali non può essere punteggiato di lungaggini burocratiche e di difficoltà amministrative, né in tempi di crisi né ordinariamente. E non ci si può illudere che la digitalizzazione amplifichi e migliori di per sé le opportunità di accesso delle persone agli interventi. Tutt’altro. Proprio le modalità digitali possono diventare una ulteriore fonte di esclusione per le fasce della popolazione più in difficoltà.

L’informazione, l’orientamento e l’assistenza durante l’iter per ricevere le misure fanno parte integrante del processo di accesso ad esse. Né questi aspetti possono essere delegati totalmente ai soggetti sociali, se non all’interno di una strategia di intervento programmata e concertata che definisca in una logica sussidiaria i ruoli che ciascuno (enti pubblici, amministrazioni locali, organizzazioni di terzo settore, ecc.) è titolato a svolgere nello scacchiere coerentemente con la propria mission.

Adesso, fronteggiata l’emergenza, il rischio da evitare è che questa si trasformi in un eterno presente, diventando un alibi per non affrontare con sistematicità alcuni nodi del nostro welfare, del nostro sistema produttivo e del mondo del lavoro.

Come ci ricorda Papa Francesco: “Uscire dalla crisi non significa dare una pennellata di vernice alle situazioni attuali perché sembrino un po’ più giuste. Uscire dalla crisi significa cambiare, e il vero cambiamento lo fanno tutti, tutte le persone che formano il popolo. Tutte le professioni, tutti. E tutti insieme, tutti in comunità. Se non lo fanno tutti il risultato sarà negativo” .

L’unico modo per andare oltre l’emergenza è costruire una visione per il futuro del nostro paese attorno a cui coagulare le energie e il fermento che abbiamo scoperto annidarsi nelle pieghe del tessuto sociale in questi mesi. Li abbiamo voluti chiamare “gli anticorpi della solidarietà”, perché sono stati appigli concreti nelle situazioni di emergenza, lasciando intravedere le potenzialità di una cittadinanza attiva e solidale che andrebbero nutrite e valorizzate.

Intorno a una strategia per il futuro del nostro Paese occorre far convergere infatti risorse umane prima ancora che economiche e in questo orizzonte stimolare azioni, interventi, progetti, proposte che vadano a favorire “il superamento dell’inequità” e la promozione di una “nuova economia” più attenta ai principi etici. Occorre tenerlo ben presente, anche nella prospettiva di quelle risorse economiche che giungeranno nei prossimi mesi – ad esempio i fondi del Recovery fund – e che saremo chiamati ad utilizzare per la ripresa economica. Senza un piano definito, prolifereranno interventi giustapposti, comunque utili, ma non in grado di incidere una volta per tutte sulle criticità dei nostri assetti economici e sociali.

Adesso bisogna avere il coraggio di creare una discontinuità rispetto al passato. E per farlo dobbiamo mettere al centro la qualità e la tenuta delle relazioni, la coesione sociale, la promozione delle capacità delle persone, i processi di infrastrutturazione sociale, “facendo fruttare le potenzialità di ogni regione e assicurano così un’equità sostenibile”