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Luigi Vanvitelli, storia dell'architetto che realizzò la Versailles italiana

di SALVATORE COSTANZO

In occasione delle imminenti celebrazioni per i duecentocinquant’anni della morte di Luigi Vanvitelli, ci occuperemo oggi di una “silloge” di vari e singolari temi legati all’opera del grande architetto e ingegnere idraulico napoletano. Un personaggio di cui non è facile scrivere in quanto molti hanno già detto in termini esaustivi.

Nel tentativo di ritrovare unite affermate personalità di studiosi e nuove forze intellettuali nazionali ed estere, sedici anni fa, all’alba del mio ponderoso volume La Scuola del Vanvitelli (Clean Edizioni, Napoli 2006), non avrei mai immaginato di scrivere un’opera incentrata su un nuovo ed originale contributo di informazioni sulla estesissima famiglia di collaboratori del maestro, sull’eredità dei suoi seguaci e sulle loro complesse vicende critiche e umane (il saggio è citato nel “Dizionario Biografico Treccani” dal prof. Tommaso Manfredi, voce Vanvitelli, Luigi, vol. 98, 2020).

Il presente scritto prende l’avvio dalla posizione particolarmente significativa dell’opera del Regio Architetto nell’ambito della storia artistica italiana ed europea; dal significato della continuità classica presente in tutta la sua produzione, che è stato anzitutto un significato innovatore, anche se non ha nulla a che vedere con il rinnovamento neoclassico, che fu reazione esplicita al Barocco, polemica d’avanguardia. E’ necessario sottolineare che la continuità del Vanvitelli è più complessa e organica, e non deriva da un impegno contingente di rinnovamento del linguaggio; perché la sua personalità non può essere ridotta a classificazioni relative alla storia della cultura architettonica. D’altro canto il suo genio artistico, caratterizzato anche dal suo isolamento rispetto alla intricata vicenda culturale del Settecento, permette una valutazione non astorica, ma ubicata come cerniera fra i due momenti principali del secolo: la conclusione dell’esperienza barocca e le origini del rinnovamento neoclassico.

Questo giudizio generale sembra essere oggi il più condiviso, anche rispetto a recenti tentativi di porre Luigi Vanvitelli non solo “come il padre spirituale del neoclassicismo” (che fu invece movimento prima culturale che architettonico, e, proprio per questo, trovò fra i suoi primi protagonisti i “dilettanti” e non i “professori” di architettura della cultura settecentesca), ma persino come il vero iniziatore del movimento.

A questo punto è indispensabile porre in luce almeno tre importanti motivi di riflessione che riguardano l’equilibrata e rigorosa interpretazione della scuola vanvitelliana: tema, quest’ultimo, che ci dà dei suoi tempi una testimonianza altissima in cui opere eseguite con fantasiose scenografie e sorprendente originalità d’impianto progettuale (sulla scia della lezione di Filippo Juvarra), si mescolano a qualcosa di insolito, di cui l’artista è stato uno straordinario rivelatore.

Il primo nodo da sciogliere nel ripercorrere con chiarezza e completezza di notizie la questione della formazione delle maestranze vanvitelliane, riguarda come il Vanvitelli sia riuscito a condurre a maturità quel processo che ha caratterizzato – nell’intero arco della sua carriera – il modo di intendere e trasmettere l’architettura. Basti pensare allo straordinario monumento della Reggia di Caserta, certamente il documento più alto e ambizioso dello stile dell’architetto (fu proprio l’esperienza casertana ad arricchire la grande architettura del Settecento di una irripetibile magia di cultura tardobarocca, fatta di soluzioni prospettiche, strumenti e atmosfere, modellata di un vero pluralismo linguistico).

La seconda considerazione è riconducibile alla sfera educativa dell’insegnamento del maestro, cioè il suo “ammaestramento”; in altre parole, il prezioso rapporto umano di Luigi nei confronti dei suoi diretti collaboratori e discepoli. Già dalle sue prime opere, spesso condotte con l’aiuto di altri architetti, la sua capacità di costruttore e il suo insegnamento si manifestarono alle maestranze e alle giovani generazioni proprio attraverso la quotidiana fatica del cantiere, che portò ben presto il Vanvitelli ad occuparsi di costruzioni di notevole impegno. Oltre che da una intima intuizione professionale, il Nostro seppe bene assorbire le forze di moltissimi allievi: nel dividere e classificare le collaborazioni secondo gli impegni e le necessità, seppe decidere, respingere, accettare.

Terza ed ultima annotazione sulla lezione del Regio Architetto è rappresentata dallo straordinario fenomeno (non ancora del tutto chiarito) dell’eredità della sua scuola nei tre decenni più avanzati del Settecento (all’incirca dal 1770 alla fine degli anni ’90), periodo in cui il clima culturale e artistico, con vivo spirito neoclassico, era venuto lentamente mutando: sicché anche la solida componente vanvitelliana basata sul legame con la grande tradizione del tardo-barocco romano, successivamente finì per essere sopraffatta. Sta di fatto che il fenomeno diventò generale; scambi e interferenze sempre più frequenti a poco a poco cancellarono i caratteri di quella che fino allora era stata ben definita e distinta “arte vanvitelliana”, determinando il formarsi di nuove correnti che percorsero tutta l’Italia, sì che solo dopo questo momento che si trascinò verso la parte centrale dell’Ottocento, cominciò ad acquistare un senso improprio l’attributo di “vanvitellianesimo”.

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